
Questo per grandi linee, in realtà tutto è stato abbastanza burrascoso. A partire dalla decisione evidentemente sofferta di festeggiare o meno il 17 marzo, infatti, quasi tutti gli argomenti in qualche modo correlabili con la ricorrenza sono stati causa di discussioni, incomprensioni, revisioni, smussamenti dei toni, opposizione e anche aperta ostilità. Focalizziamo l'attenzione su due delle questioni più dibattute: il fatto se sia giusto o meno ricordare con orgoglio il Risorgimento italiano e la necessità di riservare per la ricorrenza dell'Unità d'Italia un giorno di festa nazionale con il conseguente blocco delle attività lavorative e un rallentamento dell'economia tutta.
Quanto al primo punto c'è ampia scelta tra le posizioni delle varie parti (ma diciamo anche fazioni) politiche, sociali e intellettuali: l'Unità d'Italia è stata la realizzazione di un progetto massonico (tipico di società segrete). Garibaldi, Verdi e altre figure cardine appartenevano alla Massoneria quindi non di una liberazione vera e propria si sarebbe trattato ma di una seconda occupazione della penisola ad opera di un gruppo elitario circoscritto e distante dal cosiddetto “popolo”. Vero! I personaggi menzionati erano massoni (componenti di queste società segrete), ma è vero anche che la Massoneria dell'epoca era una realtà distinta e distante da quella attuale (per intenderci “potrebbe” non essere corretto paragonare Garibaldi o Cavour a Licio Gelli).
Ancora, si è detto che il Mezzogiorno abbia subìto piuttosto che goduto dell'unificazione della penisola. In altri termini erano meglio i Borboni che i Piemontesi; è questa la posizione dei gruppi – praticamente inediti fino a qualche tempo fa – neo-borbonici, malinconici sostenitori di un regime precedente davvero discutibile. In ultimo, molto vicino alla prospettiva dei nostalgici, c'è chi legge in chiave negativa le famosa spedizione dei Mille come un'azione volta all'occupazione violenta dei territori del Regno delle Due Sicilie, una sorta di annessione non richiesta né gradita di una popolazioni renitente ad uno Stato nascente.
Le posizioni potrebbero essere ancora tante come anche le varie sfumature, il fatto è che si dovrebbe distinguere con maggiore certezza il confine tra l'argomentazione storica e la diffusione di un mito di fondazione. Le opposizioni richiamate sopra hanno una qualche plausibilità solo se si tratta il mito come verità storica, la ragione del mito però non è storica (con la quale può pure avere dei contatti) quanto etica e valoriale.
Ogni società deve dotarsi di un mito – un racconto necessariamente glorioso dato che una società non può nascere da un errore o da un evento totalmente negativo –, di una serie di eventi estremamente significativi collocati in un tempo remoto ai quali ricondurre e sui quali basare il proprio presente. Questi eventi-mito sono per la visione che il cittadino ha della sua società come dei pilastri sui quali poggia un edificio, da essi trae motivazioni e spinta alla coesione con i suoi simili. Tuttavia, e qui sta la pietra di volta, gli eventi narrati nel mito sono modellati secondo logiche che con il reale svolgimento storico hanno niente o poco a che vedere, il mito di fondazione non ammette relativismo né verifica storica.
Per queste ragioni la spedizione dei Mille – giusto per fare un esempio – viene ricordata solo come l'eroico gesto di mille patrioti che dal Nord scesero via mare fino alla lontana Sicilia per salvarla dal crudele occupante. Lo storico cerca di discernere i singoli eventi, quelli positivi e quelli negativi, il mito unifica invece tutto in forma trionfalistica e per amore della verità.
Veniamo al secondo argomento, un giorno di festa nazionale era davvero necessario? Confindustria non vorrebbe che si perdesse un giorno di lavoro per festeggiare il 17 marzo. In tempi di crisi c'è poco da far festa, l'importante è produrre. Posizione abbastanza ruvida, ma pure in parte condivisibile. Per altri però l'opposizione al giorno di festa non si spiega in termini di razionalità economica ma di scontro tra miti: secondo la Lega Nord non si dovrebbe festeggiare perché l'Unità d'Italia non è in sé un evento da festeggiare. Perché?
Perché il 17 marzo 1861 ha sancito il predominio di Roma sul resto del nascente Stato, perché da allora il sedicente “popolo padano” ha perso la sua libertà, perché da quella data i “padani” hanno cominciato ad essere sempre più simili agli Indiani d'America, prima vessati dalle angherie della Capitale, poi, in tempi molto più recenti, dall'occupazione degli extracomunitari islamizzanti.
Qui dobbiamo entrare ancora più nel profondo della vita politica italiana dei nostri giorni. C'erano una volta in Italia la destra politica e la sinistra, una si schierava sempre a difesa della Nazione (intesa più in astratto che in concreto), si dichiarava paladina della Patria e si opponeva anche per questo alla sinistra politica che vantava invece una posizione internazionalista e una politica che superasse i confini prettamente nazionali in onore dell'idea (poi delusa) che tutti i popoli potessero vincere uniti l'oppressione delle classi dominanti.
Oggi le cose vanno diversamente, la Lega Nord rappresenta una componente troppo importante per la tenuta del governo Berlusconi e non la si può contraddire più di tanto. I Leghisti il 17 marzo vogliono festeggiare San Patrizio, protettore dell'Irlanda che viene solitamente rappresentato con il verde e la destra non ha modo né voglia di controbattere a questi signori che l'unità della Nazione italiana è cosa più importante della commemorazione di un santo che con l'Italia ha poco a che fare.
Bisogna fare silenzio altrimenti i figli della guerra potrebbero prendersela e fiaccare ulteriormente il Governo. Questa è l'opaca realtà del nostro Paese nel giorno dei 150 anni dell'Unità d'Italia. COMUNQUE E SEMPRE VIVA L'ITALIA.
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